Sulla “buona fotografia”.

Oggigiorno i “grandi esperti” di “fotografia”, che sono tanti, “dotti, medici e sapienti” [Edoardo Bennato], insieme a quella miriade di “fotografi pieni di idee, ma che non sanno bene esprimere”, sono costantemente indaffarati alla ricerca di nuovi temi da affrontare per dare “pregio” alla “fotografia”. Sì, perché, secondo loro: “non ha più senso la singola immagine. Ormai tutti sanno fare una buona fotografia. La si fa anche con un semplice smartphone!
Quindi, secondo questo assunto, la “bravura” starebbe solo nel saper individuare un argomento interessante da trattare e da lì cominciare a fare scatti che, in qualche modo, lo rappresentino. Così ecco le infinite serie di raffigurazioni di “guerra”, di “povertà” di “depravazione” ed in genere di ogni forma di “malessere sociale” ormai universalmente diffuso e facile da vedere, che fanno sempre molto trend, per non parlare delle ancor più “originali” immagini – rigorosamente in bianco e nero – dei manicomi dismessi, magari con la classica sedia sfondata sotto la finestra coi vetri rotti. Insomma, una miriade di fotografie che, se prese singolarmente non “dicono” niente e, tutte assieme, si sforzano inutilmente di farsi notare all’osservatore di passaggio.
Per carità… nulla da eccepire! Semplici operazioni di “pseudo marketing”.
Io penso, invece, che quei “dotti, medici e sapienti” di cui sopra, confondano (come, del resto, è risaputo) una “bella immagine” con una “buona fotografia”. Non sanno che una “buona fotografia”, con qualunque mezzo la si ottenga, riesce, da sola, ad evocare stati d’animo e sentimenti che nemmeno milioni di parole o di costosi portfolio fotografici possono eguagliare. Naturalmente una “buona fotografia” è merce rara, molto rara, ma quando la si incontra è sufficiente a riempire un’intera galleria.

(Nel riquadro: Migrant mother – Dorothea Lange – 1936)

g.f.



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