(per pochi intimi)

Che io un giorno, uscito da intuizioni arrovellate
possa mandare su agli angeli concordi il mio canto di giubilo e di gloria.
Che i martelli del cuore battuti per squillare
non sbaglino su corde lente, dubitanti o che si spezzino.
Che il mio volto beato di lacrime brilli e il pianto che non si vede fiorisca.
Oh come mi sarete care allora notti dolorose.
Che io non v’abbia accolto più genuflesso sorelle inconsolabili,
che nei vostri capelli sciolti non vi sia abbandonato più sciolto.
Noi, che sprechiamo i dolori.
Come li affrettiamo mentre essi tristi, durano, a vedere se finiscono, forse.
E sono invece
la fronda del nostro inverno,
il nostro sempreverde cupo
uno dei tempi dell’anno segreto, ma non solo tempo,
sono luogo, sede, campo, suolo, dimora.
 … … …
… … …
… … …
 Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti dei noccioli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante
di quando cosa ch’è felice, cade.

(Dalla decima elegia tratta da “Le Elegie Duinesi” di Rainer Maria Rilke)



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